Ieri, sulla dashboard del mio Tumblr ho trovato questa immagine:
L’ho guardata con attenzione, ho letto il testo in essa contenuto, e ho pensato: «Mpf… questi non hanno capito niente…». E allora ho deciso di modificare l’immagine stessa, cambiando i testi, per mostrare che il vero problema non è l’alienazione – che, anzi, è già una presa di coscienza del problema, e quindi un primo passo verso la cura – ma l’identificazione. Il risultato è questo:
Non sarà perfetto da un punto di vista grafico, ma rende l’idea.
Se ho perso tempo con Photoshop a creare quest’immagine, è perché davvero credo che l’alienazione, oggi, non sia un problema: qui sta, a mio modesto modo di vedere, un bel limite della teoria marxiana. Il barbuto filosofo di Treviri scrive nei suoi Manoscritti economico-filosofici del 1844:
E ora, in che cosa consiste l’alienazione del lavoro?
Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori del lavoro sì sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. [§ XXIII]
Ok. Certo. Per gli operai della catena di montaggio è sicuramente così. Ma oggi – pur essendo ancora tanti – questi operai sono assai meno rispetto al 1844. Oggi “l’operaio” è seduto dietro una scrivania, fissa lo schermo di un computer e clicca incessantemente con il mouse. Magari fa anche carriera, sale di posizioni nell’organigramma della sua azienda (privata o pubblica che sia), guadagna bene e si permette qualche lusso – la macchina nuova, le vacanze all’estero, il vestito di marca.
Ma quello che Marx non avrebbe mai potuto immaginare è che questo nuovo tipo di operaio è, spesso e volentieri, contento. Non è alienato: è soddisfatto.
Il capitalismo, cioè, è riuscito ad esprimere un tipo di sovrastruttura culturale talmente convincente e pervasiva da dotare ogni lavoratore di molteplici strumenti non solo per accettare e giustificare la propria condizione di sfruttato, ma addirittura per goderne! Charles Bukowski l’ha scritto meglio di qualunque sociologo o filosofo:
«It was true that I didn’t have much ambition, but there ought to be a place for people without ambition, I mean a better place than the one usually reserved. How in the hell could a man enjoy being awakened at 6:30 a.m. by an alarm clock, leap out of bed, dress, force-feed, shit, piss, brush teeth and hair, and fight traffic to get to a place where essentially you made lots of money for somebody else and were asked to be grateful for the opportunity to do so?»
[Era vero che io non avevo molta ambizione, ma ci deve essere un posto per la gente senza ambizione, voglio dire un posto migliore di quello che gli è di solito riservato. Come diavolo può un uomo essere contento di farsi svegliare alle 6:30 di mattina da una sveglia, saltar giù dal letto, vestirsi, mangiare in fretta, cacare, pisciare, lavarsi i denti e pettinarsi, e combattere contro il traffico per arrivare in un posto in cui essenzialmente fai un sacco di soldi per qualcun altro e ti chiedono pure di essere grato per averne l’opportunità?]
Ma se per il vecchio Hank era normale meravigliarsi di fronte a questa gigantesca contraddizione, oggi la contraddizione non la vede più (quasi) nessuno. Ecco perché penso che chi si sente alienato dal proprio lavoro sia in realtà una persona che abbia già compreso dove sta il problema ed è quindi capace di poter immaginare ed eventualmente intraprendere delle soluzioni.
Il problema vero – che corrisponde al grande successo del capitalismo contemporaneo – è che gli alienati sono sempre di meno e sempre di più son quelli che s’identificano con un sistema di sfruttamento che ha le sembianze di una giostra, di un luna park. Lo scarto fondamentale che si è prodotto nella capacità di percepire la propria condizione di sfruttato risiede proprio nella confusione tra il livello reale, misurabile e quantificabile dello sfruttamento, e la percezione che di esso ha il lavoratore. Questi, insomma, non solo non si accorge di essere sfruttato, di lavorare per produrre profitto di cui qualcun altro godrà, di contribuire alla riproduzione di un sistema produttivo iniquo e criminale; ma è persino convinto di essere nel giusto! E’ convinto che alzarsi presto la mattina, farsi due ore di macchina nel traffico cittadino, uscire dall’ufficio alle nove o dieci di sera, lavorare nei weekend, firmare contratti a tempo determinato privi di qualsivoglia garanzia, rinunciare a una vita sociale soddisfacente, anteporre le necessità professionali agli affetti ed alla vita sentimentale – che tutto ciò e molto altro sia il giusto prezzo da pagare per potersi comprare un paio di scarpe alla moda o per spendere cifre da capogiro in locali alla moda.
Nell’esser riuscito a convincere una grossa fetta della popolazione attiva di tutto ciò, sta la vittoria del capitalismo contemporaneo. C’è chi la chiama ideologia, chi la chiama colonizzazione dell’immaginario o biocapitalismo, c’è chi la chiama depressione. Ma questa è, semplicemente, la realtà delle cose presenti.
suibhne
23 febbraio 2011
proprio ieri sentivo citata una frase di Pasolini che farebbe all’uopo: “”La Rivoluzione in cui speri non ci sarà, perché il capitalismo ha mutato per sempre a propria immagine chi potrebbe volerla”. Però non ne trovo riscontro e potrei ricordarla male o potrebbe essere apocrifa 😉
abcdeeffe
23 febbraio 2011
Beh, è molto coerente con il pensiero di Pasolini in effetti. E dire che lui ci è arrivato 40 anni fa…
Giacomo
23 febbraio 2011
La cosa allucinante è che in certi lavori si pretende dal lavoratore l’uso dell’immaginazione, della creatività, della progettualità ecc., anche della capacità di sentire le emozioni di coloro ai quali ci si rivolge, per prevedere gli effetti di certe soluzioni… Tutto molto bello, in apparenza, una bella occasione per realizzarsi, per esprimersi, per sentirsi chiamati in causa nella propria totalità, interezza (wow, anche l’emotività…).
Solo che tutto ciò viene messo in moto per scopi decisi da altri, per placare gli egoismi di altri. (Quindi si viene dati in pasto al moloch tutti interi; sarebbe una fortuna, allora, essere alienati, cioè avere almeno una parte di sé al sicuro…) E se devo scegliere fra gli egoismi degli altri e l’egoismo mio, mi tengo stretto quest’ultimo. (L’ideale essendo, per me, il servizio puro e semplice di una causa davvero comune.)
abcdeeffe
23 febbraio 2011
Già, è vero, ci sono situazioni in cui l’alienazione andrebbe persino auspicata, nella misura in cui sarebbe il risultato di una coscienza non ancora anestetizzata e offrirebbe una possibilità di allargare delle crepe in un sistema di sfruttamento. Vedi che paradosso? Oggi come oggi, bisognerebbe augurarsela l’alienazione!
adriana
24 febbraio 2011
nel tag metti anche “identificazione”.
abcdeeffe
24 febbraio 2011
fatto!
arco
24 febbraio 2011
D’accordo su quasi tutto. Il mio problema è che non riesco a capire quanto sia grande questa “grossa fetta”, quale impatto ha sulla reale produzione economica dell’Occidente, quanto i rapporti di forza siano invertiti nel resto del mondo. Non ho alcun dubbio, invece, della portata epocale dell’impatto dell’ideologia sull’immaginario (e grazie per il bellissimo filmato di zizek: i cultural studies applicati ai cessi. Geniale).
abcdeeffe
24 febbraio 2011
Andiamo con ordine.
– questa “grossa fetta”, quale impatto ha sulla reale produzione economica dell’Occidente: hai ragione, mancano i dati quantitativi. Ma immaginiamo che tutti quelli che lavorano nei servizi, fatte le loro 7,15 ore quotidiane, tornino a casa. Secondo me crolla l’economia. E non sarebbe necessariamente un male. Impiegati, dirigenti, funzionari, addetti ai call center… La mia attenzione, comunque, non è sull’economia, sulla produzione, ma sugli effetti che il capitalismo ha sulla vita dei singoli.
– quanto i rapporti di forza siano invertiti nel resto del mondo: bella domanda! Dopo la colonizzazione delle terre, come si svolge la colonizzazione degli immaginari extra-occidentali? Bisogna vedere caso per caso. Io conosco bene il Messico, dove queste dinamiche sono drammatiche, ma parimenti cazzute sono le sacche di resistenza.
Zizek è stupendo! E non ditemi che non ha ragione! 😉
ilgioa
25 febbraio 2011
Che crolli l’economia se tutti lavorassero solo 7,15 ore al giorno e’ tutto da vedere. Ne parlavo giusto pochi giorni fa con impiegati di una grande multinazionale che, all’unisono, mi dicevano: A) a fine giornata non so nemmeno quantificare cosa o quanto ho prodotto, e B) quando siamo andati per un po’ di tempo nella casa madre (nel nord Europa) ci siamo accorti di come facciano piu’ pause di noi, terminino il lavoro sempre rigorosamente alle 5, eppure producano piu’ di noi.
Personalmente, poi, dopo 10 anni di esperienza nell’Information Technology, posso dirti che, eccetto forse i programmatori, il resto del settore gira a vuoto per il 70-80% del tempo.
abcdeeffe
25 febbraio 2011
@ilgioia, dietro quello che dici traspare esattamente il problema che ho cercato di mettere in luce, ossia l’identificazione. Tu ragioni in termini di “produttività” e ti preoccupi di come misurarla e di come aumentarla. Seguendo questa logica – da Ford in poi – è nata quella scienza che si occupa dell’organizzazione del lavoro. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: licenziamenti, riduzione dei diritti (la Fiat ha appena accorciato le pause a Mirafiori, con *grande* sorpresa della UIL…), precarizzazione, sfruttamento, mobbing etc. Tutto in nome della produttività. In Messico, paese uscito da una rivoluzione (1910), la Costituzione obbliga tutte le imprese a ridistribuire il 10% dei profitti ai propri lavoratori; ecco, questo è un modo di aumentare la produttività! Pagarla! E profumatamente!
Ma di nuovo: io sposto l’attenzione sulle strategie discorsive che fanno sì che il lavoratore non si accorga di essere sfruttato e ne sia, anzi, contento: è chiaro che se in ufficio tutti mi guardano malissimo se esco dopo esattamente 7,15 ore di lavoro, io tenderò a uscire più tardi, per non subire uno stigma sociale; ma di conseguenza lavorerò più lentamente, ozierò, e la produttività ne risentirà… Allora l’unica soluzione non può che essere quella di capovolgere radicalmente l’idea stessa di produttività! Per es., a Napoli c’era un meccanico che non appena guadagnava abbastanza per la giornata, chiudeva. A volte anche dopo solo un paio d’ore di lavoro. Ecco!
ilgioa
25 febbraio 2011
Guarda, io sono d’accordissimo col tuo discorso circa il pagare la produttivita’, e fortunatamente mi capita persino di lavorare per una societa’ (non certo italiana!) che lo fa.
Il tuo discorso sullo sfruttamento del lavoratore e’ giusto, ma si incrina quando usi l’esempio del meccanico napoletano. Siccome non possiamo essere tutti lavoratori autonomi, cio’ significa che *dobbiamo* andare a farci sfruttare da qualcuno. Beh, allora, personalmente, in attesa della rivoluzione, preferisco passare la mia giornata lavorativa “identificato” piuttosto che “alienato”.
abcdeeffe
26 febbraio 2011
@ilgioia, l’esempio del meccanico è una metafora, serve a spostare il limite della visione più in là: serve cioè a mostrare, con un esempio evidentemente *estremo*, che questa non è l’unica realtà possibile. Quando dici “Siccome non possiamo essere tutti lavoratori autonomi…” tu stai facendo esattamente un esercizio di realismo. Ma il realismo è un limite, perchè ingabbia la visione, impedisce il pensiero laterale, alternativo. E infatti da nessuna parte è scritto che la scelta si riduce alla triade rivoluzione/alienazione/identificazione – al contrario! Se proprio devo essere sfruttato, allora in quel contesto di sfruttamento io cerco di costruirmi i più ampi margini di libertà, facendo sì che quel meccanismo si crepi dall’interno. E i primi passi sono quelli di prendere coscienza della propria condizione e di sfuggire da questo finto realismo, che altro non è che un ulteriore dispositivo di sfruttamento! Quante volte la gente si adagia sul “tanto funziona così, che ci posso fare…”? Basta. Davvero.
Amed
12 maggio 2011
Prendo la metropolitana tutti i giorni. Sorrisi non ne vedo, e quando ne vedo sono falsi e disperati. I suicidi sul posto di lavoro non sono mai stati così alti, e sarebbero molto più alti se non per un’enorme dispiegamente farmaceutico: gli anti-depressivi sono ovunque. Se non è alienazione quella.
Certo la vecchia litania sul valore del lavoro, su quanto è bello fare carriera e identificarsi con i profitti della propria azienda continua, ma non ci crede più nessuno. Sono come le messe in latino, si ripetono perchè si deve, ma nessuno ne conosce il significato oramai. Siamo ormai nell’era del cinismo: l’unica giustificazione rimasta per sacrificarsi nel lavoro non è etica, ma consumistica. “Si è vero lavoro in banca. Però mi posso comprare la smart, il monolocale, la ragazza”. Ciò che conta sono i soldi, non come si fanno: ecco perchè dimostrare che Berlusconi ha fatto i suoi soldi rubando e non ‘lavorando onestamente’ è del tutto inutile. La sua popolarità non sarebbe danneggiata in alcun modo.
daniele manno
13 settembre 2011
il prboblema dell’identificazione è il problema veramente più grave della nostra società, purtroppo non soltanto da un punto di vista capitalistico, ma da molto tempo prima e in molti altri luoghi, spesso, assolutamente indubitabili. Non potrei esaurire qui nemeno un decimo percentile di tutto l’argomento, ma fin dal mito della caverna di platone si blatera di “liberazione” contrapposta a “schiavitù”. la vera schiavitù consiste soltanto nel non vedersi altro da quello che si fa. nell’identificarsi con la parte di sé che appare visibile attraverso la ragione o attraverso gli altri. facebook è il luogo dell’esserificazione, il momento in cui il tuo doppio ti coglie alle spalle e rientra prepotente dentro ogni briciola di te, compiendo il delitto più grave di qualsiasi altro: privarti di ciò che non sai di essere… per essere un buon filosofo nel XXI secolo basta prendere a piene mani dalla vita di unqualsiasi jazz man che ha vissuto in america (anche herbie hanckok per intenderci). Mingus studiava il contrabasso mentre faceva il lavapiatti, faceva il contrabassista mentre parlava di donne con i membri della sua band. faceva l’amore mentre in realtà stava riportando un pò d negritudine in quelle “fichette bianche”… era, come si deve, sempre altrove.