Capita, quando finisce un amore, che si ciondoli per un tempo tra il desiderio di interrompere il silenzio e la distanza che seguono il distacco e la paura di esprimere ciò che proprio in quel silenzio e in quella distanza si è elaborato. Si vorrebbe tornare a discutere, a evidenziare i problemi, le debolezze e anche i punti di forza della relazione; si vorrebbe nuovamente contrattare, negoziare un’altra possibilità, ora che la frattura ha creato le condizioni per poter identificare i propri errori e quindi per poterli superare. Tuttavia immediata sorge la paura che le parole, quando agissero, seppur da una prospettiva nuova, su eventi, ricordi, elementi in genere dolorosi – quando tornassero, cioè, su di un passato agre che entrambi i soggetti vogliono dimenticare – non sarebbero in grado di privare quegli stessi eventi del loro fattore di sofferenza.
Questo accade, però, in un amore postmoderno.
Tale è quell’amore incapace di dotarsi di una grande narrazione, vale a dire una visione del passato, del presente e del futuro insieme. Quell’amore fatto di frasi locali, che valgono cioè solo per quel momento e quel contesto. Quell’amore che dice «ti amo» solo quando ci sono le condizioni scenografiche per farlo: un’occasione romantica, un momento di passione fisica, un atto di cerimonia, il dovere di ringraziare per una cortesia ricevuta.
Postmoderno è questo amore perché mette in secondo piano (cioè in un piano più profondo e meno illuminato) la sfera del desiderio. Lo riduce, cioè, a formalità espressive: «grazie», «prego», «dopo di te», «come preferisci», «parliamone». Un amore ben educato, certo, ma superficiale. Un amore debole, senza radici né rami estesi, fatto solo di foglie che la prima folata di vento autunnale spazzerà via.
Ad esso si contrappone un amore, per così dire, di ancien régime, tutto centrato sulla dimensione del desiderio, il cui sforzo quotidiano consiste nel costruirla come casa comune: un condiviso e costante abitare il desiderio. Dell’uno, dell’altro, di entrambi, del mondo circostante. Un amore che non parla con mezzi termini, con parole ambigue, che quando dice «ti amo» sta dicendo «voglio possederti» e quando urla «amami!» sta gridando «possiedimi!». Un amore, soprattutto, che si articola intorno a una metanarrazione in cui entrambi gli amanti affermano di credere, fatta sì di valori, visioni, progetti, ma soprattutto di un ordito di desideri.
L’amore postmoderno può o non può funzionare, come un ingranaggio che sia oliato o spanato – meglio, come una lingua di cui si abbia o meno proprietà. Se non funziona è perché quelle parole, quelle espressioni formali, sono i mattoni di sabbia di un desiderio estivo. L’amore di ancien régime parla attraverso i baci e le mani, le urla e le carezze, lo sguardo posto lontano, al di qua e al di là del presente.
[Il maschio angioino e la ragazza in jeans – rielaborazione de Il bacio di Francesco Hayez]
Demian
16 febbraio 2011
Quanto è vero. E quanto ne vedo in giro di siffatto amore. Io tendo, al moderno forse. Sarà che ho a mente i classici. Sarà che sono stato formato anche da libri ottocenteschi che presentavano l’amore in tutte le sue sfaccettature e le sue sofferenze, minuziosamente. Sarà che ho vissuto la mia età adolescenziale senza social network, sarà per altro..
voldemorre
23 gennaio 2018
Nel terzo millennio siamo ancora a “possiedimi” e “voglio possederti”?
Ommaronna…
Abbellirli includendovi il desiderio per la condivisione metanarrativa del circostante indora ben poco la pillola di una cecità incrostata da secoli di cispa culturale.
È il vecchio gioco dell’acchiapparella, seducente nel breve termine.
Un doggy style fisico ed affettivo.
Né il desiderio è costruire la casetta in mattoni del terzo porcellino, capsula da arredare insieme con un film d’autore, una installazione, una marina al tramonto, la musica di Nicola Cava, magari un po’ di stordimento alcolico e psicotropico, piece di teatro, città d’arte, saggistica e romanzi, l’equivalente delle figurine da attaccare sull’album della raccolta Panini – celo, celo; mi manca – illudendosi di fluttuare in un superiore altrove, diversi dal popolo che calpesta il terracqueo mondo.
È un gioco di specchi, rimandi, similitudini, identificazioni; confortante certezza della presenza di un uguale a sé, in cui l’illusorio fondersi è solo confondersi con il proprio gemello, differente la sola anatomia.
L’amore, senza etichette varie, è dialettica in tutte le sfumature, che siano rifiuto, seduzione, intesa, parole, distanza, fisicità, sguardi, risata… Non desiderio. Quello, attrazione per le qualità e la diversità dell’altro, consegue alla prima.