Frida non l’ha fatto apposta, è stata colpa mia, ché non me ne sono accorto prima.
I nostri fine settimana, da quando siamo andati a vivere insieme, sono finiti quasi sempre in litigi. Il fatto è che le nostre aspettative sono radicalmente diverse, e io ci ho messo un po’ a capirlo, ma poi glielo ho detto in maniera chiara. Lei lavora dal lunedì al venerdì, dalle otto di mattina alle otto di sera, in un ufficio dove ricopre un ruolo abbastanza importante e che ha dei ritmi frenetici: consegne, riunioni, progetti, e pure pranzi di lavori ed aperitivi di circostanza. Per di più il suo lavoro le piace e quindi non esita a dedicarvi più tempo del dovuto. Allora succede sempre che la sera, al suo ritorno, ceniamo, scambiamo due chiacchiere e poi lei va a dormire. E io affronto i giorni e le notti in perfetta solitudine.
Il mio lavoro, invece, è impalpabile. Non produce alcun risultato, non si può vedere o toccare o assaggiare. Non ha orari, ma soprattutto non ha ritmi, scadenze o consegne da rispettare. Ecco perché prima di svolgerlo pulisco accuratamente la cucina: lavo i piatti, spazzo il pavimento, tolgo le briciole dalla tovaglia con il mini aspirapolvere, pulisco le mensole e i ripiani, affilo i coltelli. In questo modo riesco a procurarmi la piacevole sensazione di soddisfazione per un lavoro ben fatto, il cui risultato sia immediatamente percepibile. Ma Frida questo non è mai riuscita a capirlo e con un misto di benevolenza e ironia mi dice che sono la sua casalinga preferita.
Nei primi mesi succedeva la domenica: mi arrabbiavo e partivano le sceneggiate. Io le urlavo in faccia che non si può ridurre la vita di coppia a una sequenza di attività concentrate tra il venerdì sera e la domenica sera, che l’amore non è a tempo, non è part-time, che non si può stare insieme solo 48 ore a settimana. Lei mi guardava incredula, con una faccia completamente inebetita. E io davanti a quella faccia mi incazzavo del tutto, la mandavo affanculo perché non capiva un cazzo.
– Rincoglionita di merda, serva, puttana del lavoro!
Di fine settimana in fine settimana la tensione aumentava. Il venerdì sera andava ancora bene, perché spesso cenavamo fuori o incontravamo degli amici. Oppure rimanevamo a casa e facevamo l’amore. Frida ha un corpo splendido, io ne sono rapito, e l’amo come meglio so, ma dura sempre poco perché lei è stanca e vuole dormire. Alla fine ci abbracciamo e io le dico che è bellissimo toccarci, che dovremmo farlo più spesso, per più tempo, lentamente, tutti i giorni anche, e che insomma abbiamo bisogno di immaginare una vita di coppia diversa, di costruire insieme un’ecologia della coppia. Però poi succedeva che il sabato mattina l’elettricità si sentiva nell’aria, e bastava una virgola fuori posto per esplodere. Ieri, per esempio, ho preso tutte le padelle e le ho sbattute con forza sul pavimento, ai suoi piedi. L’ho vista spaventata, ma anche indurita.
Il problema secondo me è che lei non è abituata a faticare. É una lavoratrice molto seria, è capace di stare ore intere con la testa nel computer o fra le carte, farebbe chilometri e chilometri per portare a termine un impegno, sale e scende in continuazione da aerei, treni e taxi, eppure la fatica non sa cosa sia. La fatica della differenza, intendo. Datele una procedura qualsiasi, anche complessa, e la porterà a termine in maniera ineccepibile ed efficace. Una lavoratrice così se la contendono in molti, in effetti. Ha un senso del dovere molto spiccato, frutto di un’educazione prussiana, e anche il suo senso estetico risente di quell’impostazione. Esiste, cioè, nella sua visione, un catalogo di cose che sono “belle” perché sono socialmente riconosciute come tali: un certo pittore, un paesaggio, un piatto, una destinazione di viaggio. O una passeggiata la domenica. Io trovo che questo atteggiamento sia superficiale, e non ho mai smesso di farle notare la sua mancanza di profondità.
– A me non piace passeggiare nel parco.
È bastata questa frase. Stavolta è scoppiata lei per prima e io ho cercato di portare pazienza all’inizio, di spiegarle il mio punto di vista nella maniera più chiara di cui fossi capace, ma lei era un fiume in piena. Di solito piange. Mi guarda sconvolta, e le lacrime prendono a scorrere secondo un automatismo perfettamente funzionante. Non singhiozza né sussulta, ma semplicemente produce un’incessante quantità di lacrime. Il che non m’intenerisce affatto, e al contrario mi rende ancora più nervoso. Ma non questa volta. Sono rimasto seduto a fissare la tovaglia, ho aspettato con calma che terminasse la sua sequela di domande retoriche e lo ho chiesto una cosa semplice.
– Che cosa ti aspettavi?
Non era una domanda retorica, o peggio sarcastica. Da tempo ormai le vado dicendo che è con la realtà che bisogna fare i conti, che la si può certo modificare, che per questo bisogna sforzarsi e faticare, che non si deve abbandonare il campo prima di aver provato a vincere. Le prime volte glielo dicevo con arroganza, come se queste fossero delle verità così palesi che nessuno può negarle. Ma il messaggio non arrivava. Ho provato con le argomentazioni logiche, sequenziali, passaggio dopo passaggio, persuaso che una donna come lei mi avrebbe seguito senza difficoltà. Nemmeno questo funzionava.
Stamattina, quando ha cominciato a piangere e a lamentarsi, mi sono ricordato che l’amo, e che l’amore talvolta ha bisogno di un po’ di dolcezza. Ho una voce suadente io, quando non urlo. Le ho detto allora che io non sarò mai aderente alla sua fantasia, che se ci scontriamo è perché io oppongo resistenza al suo tentativo di ridurmi a una proiezione della sua immaginazione, e che questa sua fantasia è un desiderio di possesso, una violenza nei miei confronti. Le ho anche citato quella canzone che dice “se ami qualcuno, lascialo libero”, perché in fondo ho sempre creduto che nelle canzoni pop sia racchiusa una grande saggezza. Lei ha ripetuto in continuazione che non è vero, che è tutto falso, che mi sbaglio. Io però sorridevo, mostravo ottimismo, insistevo che se avessimo cominciato a guardare le cose come stanno e non come desideriamo che stiano tutto si sarebbe aggiustato. C’avevo messo un po’ a capirlo che con lei bisogna andar piano, con dolcezza, perché non deve essere per niente facile, per lei che non è abituata alla fatica, abbandonare un pezzo di se stessa.
– Credi davvero?
Non avevo mai sentito prima quel tono. Il ceppo di legno dei coltelli è lì a due passi, sulla cassettiera al lato del lavello. Quando ho visto il suo braccio tendersi verso il mio fianco destro, mi sentivo ancora ottimista. Mi sono meravigliato, però, quando ho realizzato che mentre affondava la lama nel mio fegato con determinazione, tutta, fino al manico, stava sorridendo. E io che la credevo superficiale.
[Jacques-Louis David, La mort de Marat. Il testo nella mano sinistra recita: “13 luglio 1793. Marianne Charlotte Corday al cittadino Marat. E’ sufficiente che io sia davvero infelice per avere diritto alla vostra benevolenza”]
Una Frida italiana
26 settembre 2010
Mi identifico molto con i problemi di Frida. Capisco quello che vuoi dire, ma dopo una settimana di lavoro massacrante è normale, umano, volersi riposare. E’ un bisogno fisico. Si può certo rinunciare a lavorare tanto, oppure cambiare lavoro (se se ne trova uno)e lavorare meno per essere “meno schiavi”. Ma è solo un’illusione, perchè il meccanismo è sempre lo stesso. Sarà solo meno gratificante e meno pagato.
abcdeeffe
26 settembre 2010
Il punto non è nè il giusto riposo, quello non si nega a nessuno. Il punto è, come dici, che questo meccanismo, questo dispositivo, si estende al di là delle ore di ufficio, e permea la nostra vita, che è altra cosa dal lavoro, come una piovra che stira i suoi tentacoli dentro i nostri polmoni. Deleuze diceva (la cito sempre, questa) che “non si scappa dalla macchina” (on n’echappe pas de la machine) e aveva ragione. Ma quello che bisogna capire è che la realizzazione personale non passa necessariamente nè solo da un lavoro gratificante e ben pagato. Qual è la tua gerarchia di valori? La tua lista di priorità? Ammazzaresti quello “scansafatiche” del tuo uomo (come nella storia, intendo) solo perchè ti fa vedere l’abisso di schiavitù in cui sei caduta? Cosa è più importante? La vita, o il lavoro – che della vita è solo uno strumento?
Quando uno risponde a queste domande, allora prende il coraggio a due mani e fa delle scelte, con intelligenza, mediando. Se non si ha coraggio, allora è giusto che si rimanga schiavi.
skiumi
26 settembre 2010
Acá hay tres clases de gente: las que se matan trabajando, las que deberían trabajar y las que tendrían que matarse….
abcdeeffe
26 settembre 2010
Por acá en cambio solo están los que se quedan mirando a los demás, y deciden abrir otra botella, que tarde o temprano nos vamos directito a la chingada…
Una Frida italiana
27 settembre 2010
nell’affermazione che citi sta la risposta: “Deleuze: on n’echappe pas de la machine. E aveva ragione.” La realizzazione personale può sicuramente passare da altro oltre che dal lavoro, ma è il lavoro, così come è organizzato adesso, che non lascia vie di scampo. La colpa non è di Frida, prussiana o italiana che sia. A meno che non si possa vivere di rendita, è questo il modello in cui dobbiamo vivere (o sopravvivere). Il mio è solo pragmatismo. Per il resto penso che bisognerebbe trovare un nuovo modello di sviluppo perchè questo, così com’è, non è socialmente nè materialmente sostenibile. Non vedo però grandi dibattiti all’orizzonte
abcdeeffe
27 settembre 2010
Quello che non vedo è il coraggio di fare un scelta. Si dà per scontato che si debba lavorare secondo le logiche del mercato, per forza. No, non è vero, le alternative ci sono. Per esempio, se ne parla qui:
https://abcdeeffe.wordpress.com/2010/07/30/l-avoro/
Non c’è bisogno della rendita. C’è bisogno di fantasia e coraggio. E se non ci sono dibattiti non prendiamocela con gli altri, non deleghiamo. Attribuire la colpa al “sistema” significa non assumersi le proprie responsabilità, ossia firmare la propria condanna alla schiavitù: troppo facile, quasi vigliacco. Il lavorìo di critica – ben distinto dal lavoro – è importante. Lo diceva pure Baumann ieri al Festival del Diritto. Le fonti di riflessione ci sono, ma bisogna cercarle.
Su Deleuze: aveva ragione, ma aveva dimenticato una cosa. Che la macchina può andare dove vogliamo noi, non dove vuole il Padrone.
Una Frida italiana
27 settembre 2010
Hai solo messo la foto di una copertina di un libro ma non hai spiegato nulla. Quindi attendo di sapere esattamente come si fa a vivere senza reddito in QUESTA . Per il resto non tutti hanno il carattere del rivoluzionario e non per questo meritano di essere chiamati “schiavi del lavoro” o peggio, “del padrone”. Terminologia, tra l’altro, da secolo scorso.
Una Frida italiana
27 settembre 2010
Hai solo messo la foto di una copertina di un libro ma non hai spiegato nulla. Quindi attendo di sapere esattamente come si fa a vivere senza reddito in QUESTA società e non nella foresta amazzonica. Per il resto non tutti hanno il carattere del rivoluzionario e non per questo meritano di essere chiamati “schiavi del lavoro” o peggio, “del padrone”. Terminologia, tra l’altro, da secolo scorso. Sottoscrivo il fatto che il lavorìo di critica sia importante.
ps. questa è la versione completa di quello che stavo scrivendo
abcdeeffe
27 settembre 2010
Hai ragione, ho sbagliato post, ne parlo qui:
https://abcdeeffe.wordpress.com/2010/05/04/m-onetizzare/
Il riferimento al libro (per altro un’operazione editoriale che non mi è piaciuta nei contenuti, l’ho letto e l’ho trovato limitato, anche se le storie riportate hanno un qualche interesse) era solo per offrire uno spunto di lettura.
Il punto, come dici, sta in QUESTA società. Perchè QUESTA e non UN’ALTRA? La critica è radicale, o non è! E non parlo di Amazzonia, ma dico una cosa semplice, non necessariamente da rivoluzionario: non si può far la vittima se non si ha il coraggio di cambiare, a casa propria. Lamentarsi è reazionario.
E poi che male c’è a usare “terminologia del secolo scorso”? Forse è scaduta? Forse non è aderente alla realtà attuale? Forse non esistono più i padroni? Forse il precariato non è una nuova forma di schiavitù?
abcdeeffe
27 settembre 2010
Un esempio di chi si è liberato?
http://www.tgcom.mediaset.it/libri/articoli/articolo491392.shtml
La libertà non è libera. Solo la liberazione lo è.
Una Frida italiana
27 settembre 2010
Si tratta sempre di super manager che hanno potuto SCIEGLIERE. e comunque, il super manager pentito si è potuto comprare una casa di 50mila euro e vive con 650 euro al mese. Stipendio medio di un primo lavoro
Una Frida italiana
27 settembre 2010
scegliere..ovviamente. Mi è partita la tastiera
abcdeeffe
27 settembre 2010
Esatto. Qui non c’è nessuna apologia di una presunta purezza. Lui, come noi, era all’interno di una macchina. Ha fatto una scelta che non consiste nel cambiare macchina, ma nel farla andare dove vuole lui. Punto. Ti pare poco???
Questo è centrale: non esistono altre macchine, c’è solo quella in cui siamo immersi. Ma la direzione di moto, quella sì possiamo cambiarla!
reticolare77
14 ottobre 2010
il lavoro è certo la scelta di stravolgere la nostra vita è incerta..il modello attuale è pieno di divertimento programmato (shopping che è uno status symbol, amici che condividono la nostra vita “schiava”, ) perché noi abbiamo esigenze a cui non riusciamo a rinunciare..la liberazione di perotti è l’effetto di una liberazione mentale dalle cose e dalla rete mediatica delle esigenze…non so forse sproloquio..ma più che fantasia e coraggio c’è bisogno di istruzione, di comunicazione di valori, progettualità, poi anche di coraggio e di fantasia..non c’è una rottura di un singolo che apra la strada..c’è la modificazione lenta di un modello economico culturale ormai saturo..comunque interessante la tua discussione.
abcdeeffe
15 ottobre 2010
Concordo, l’esempio di Perotti è solo il più “luminoso, ma non certo l’unico. Nè l’unico modo. La liberazione è sempre un percorso, ed è sempre faticosa. Questo è quel che vuol dire la frase “la libertà non è libera”. Solo la liberazione lo è. Processo vs. statica illusoria. E complimenti a te per la tua rivista!
reticolare77
16 ottobre 2010
grazie mille…ciao
fausto
1 agosto 2011
geniale.