Ricordo la prima volta che ho dovuto produrre una ricerca scritta di un certo livello: si trattava di una tesina per il diploma di maturità. Mi si chiedeva un minimo di 4000 parole, una struttura più o meno standardizzata (introduzione, corpo centrale e conclusione) e una bibliografia. Eravamo nei primi anni ’90, e non avevo ancora mai né navigato né mandato un email. Scrissi la tesina, su un tema di letteratura italiana quanto mai ambiguo, in quattro giorni – dopo settimane passate a raccogliere informazioni, spunti, a buttar giù appunti – adoperando un computer portatile della Olivetti che mi fu prestato da un amico. Windows 3.1 e Word 2.0 mi facevano sentire fortunato, sebbene non li capissi molto bene, perchè erano considerati molto più sviluppati di quanto utilizzava la maggior parte dei miei compagni di classe: WordPerfect 5.0 e il caro, vecchio MS-DOS.
Quando vidi uscire la prima stampa della tesina dalla stampante ad aghi, mi commossi. Ricordo che all’amico proprietario del portatile, lì accanto a me, dissi: “Mi sento padre!”.
Molti altri testi, prevalentemente accademici, furono in seguito elaborati con tecnologie più avanzate e videro la luce con gioia e fatica; ma quella sensazione di paternità non ebbe mai più a ripresentarsi. Per molti figli nati, tuttavia, devo confessare che almeno dieci volte di più ne ho abortiti, e che cento volte tanto il mio seme intellettuale è stato sparso al vento, senza mai raggiungere la carta. O lo schermo.
Mi è capitato di rileggere, in maniera del tutto inaspettata, uno di questi innumerevoli figlioli; ne ho provato disgusto. Non avrei mai creduto di essere in grado di scrivere un tale grado di castronerie boriose e cacofoniche, disarticolate e inconcludenti. Mi sono sentito come lo zingaro che vede il bambino creduto suo figlio avere la pelle del colore della luna: non gli appartiene e lo rifiuta. Poi, passata questa prima sensazione, sono riandato con la memoria al tempo in cui scrissi quel saggio, e la distanza – più che l’indulgenza verso me stesso – mi ha fatto osservare le condizioni in cui partorii quell’obbrobrio: i limiti di circostanza, lo stato emotivo, il percorso di ricerca che intendevo seguire. Ho ricordato come difesi quel testo di fronte ai suoi denigratori, e come, pur sapendo che non era il migliore dei miei figli, in fondo lo apprezzassi. Gli volli bene, per così dire.
Ed allora ho capito: se avevo voluto bene, ed ora provavo disgusto, non era perché misconoscevo il frutto del mio stesso pensiero e del mio lavoro, ma perché era questo a misconoscere me. A rifiutarmi. Sono io quello che è cambiato nel tempo, non il testo che scrissi otto anni or sono: esso presenta esattamente gli stessi molti limiti e gli stessi pochi pregi che presentava quando uscì dalla stampante. Non è stato lui a mutare, a peggiorare, a imbarbarirsi, ma sono stato io a cambiare, tanto che ora di esso mi vergogno e mai mi sognerei di difenderlo in pubblico. In altre parole, sono stato io a tradirlo. Ed esso mi ha ripagato gettandomi in faccia il suo disgusto, rifiutandomi.
* * *
Questa è allora la strada da fare per dirsi uomini: trasformarsi coscienziosamente nelle vittime dei propri figli. Non basta uccidere il Padre – la Legge – per diventare uomini: chi uccide suo padre diventa solo orfano, e in quanto tale rimane figlio. Chi vuole dirsi uomo deve allora dirsi padre, diventare carne per i propri figli, lasciare che si cibino di sé come un tempo ci si nutrì del proprio padre. La paternità in questo consiste: una deliberata, auto-inflitta, condanna a morte.
Una sentenza capitale, però, che rappresenta l’unico atto che in un’unica volta ci fa uomini, dà un senso e una continuità alla nostra esistenza (e pertanto all’esistenza dell’intero genere umano), e sconfigge la morte, scegliendola.
[Francis Bacon – Oedipus]
Giacomo
21 agosto 2010
Ma non sarebbe meglio cercare di abolire ogni linea di ascendenza e discendenza? Stemperarle, confonderle… Perché tornare sempre a costringersi in questi scontri, confronti, dialettiche ecc.? Tornare a tracciare limiti per poi inventarsi modi sempre nuovi per superarli o cancellarli ecc.
Con tutto un passare dalla sfida al sacrificio… Sempre nel campo del destino, della vocazione, dei grandi appuntamenti, dei conti che incombono da calcolare e pagare…
Perché non limitarsi, invece, a deporre il proprio contributo al procedimento umano? Senza padri e figli. liquidando miti e immagini del passato. Nell’attesa che i progressi tecnici liquidino anche i loro presupposti materiali.
abcdeeffe
21 agosto 2010
Non so se sarebbe meglio, so che è una possibilità, per quanto attualmente solo teorica. E lo giudico un diritto. Ho come il sospetto, però, che così si voglia eludere un problema, non risolverlo. Non credo che siamo nel campo del destino, non c’è nulla di preordinato nell’uccisione del Padre, nella misura in cui essa rimane sempre una scelta da prendere e poi da portare a termine. Al contrario, si tratta di un esercizio di libertà. Ma il mio cruccio è sempre quello di coniugare libertà e responsabilità, evitando sì costrizioni e legami (i.e. la famiglia) ma anche continuando a immaginare una comunità di appartenenza (allargata, potenzialmente infinita, non ridotta alla triade io-mamma-papà) nei confronti della quale ho delle responsabilità. E la responsabilità consiste allora nel farsi – liberamente – vittima dei propri figli, affinchè essi possano compiere la stessa mia liberazione. Guarda che non è facile essere liberi quando si è senza Dio.
O in poche parole: per quanto mi faccia schifo, non sono ancora riuscito a liberarmi della mia condizione umana… 🙂