E.mpatia

Posted on 23 luglio 2010

2


A tavola eravamo tre coppie, caratterizzate da curiose corrispondenze statistiche. Tre maschi italiani, due dei quali meridionali (il terzo, meridionale honoris causa), con le rispettive compagne, tutte non italiane* : una mitteleuropea (la mia), una slava, una mediorientale. Tra alti e bassi arrancavano le nostre relazioni, mentre la carne abbrustoliva sulla griglia del barbecue.

Anni fa supponevo che la cucina fosse un’occasione d’incontro tra le culture improntata a uno scambio essenzialmente pacifico, nella misura in cui la pur grande varietà dei gusti e delle preferenze non poteva comunque eludere il fatto basilare della necessità universale di nutrimento. O, come diceva mia nonna parlando di business: «Apri un ristorante, la gente deve sempre mangiare». Con il tempo, mi sono accorto che sbagliavo, perchè in realtà è proprio nel percorso accidentato che va dai fornelli alla tavola che le differenze vengono drammaticamente a galla, come gli gnocchi quando sono cotti. Io, poi, sono assolutamente un autoritario, in cucina e davanti al piatto. Si prepara come dico io e si mangia come dico io, lo spazio per le varianti personali è minimo e si riduce alla polarità salato/non salato. Accortomi anche di questo, ho dovuto insomma rivedere la mia supposizione iniziale.

A tavola, allora, si sono create essenzialmente due fronti: quello italo-meridionale e quello femminile, con l’italo-settentrionale nelle vesti di mediatore.

Amò, passami il pane.

– Per favore.

– Devo dire per favore ogni volta? E così non la finiamo più!

Non si può dare nulla per scontato in una relazione di coppia, ancor di più quando a distinguere lui e lei non è solo il genere, ma anche la lingua, la nazionalità, la cultura di provenienza. Questa distanza maggiore, rispetto a una relazione “con mogli e buoi dei paesi tuoi”, genera una enorme quantità d’incomprensioni, che nel lungo periodo possono arrivare a logorare la relazione stessa.

Per dimostrare quanto ampia sia la quantità di significato che si dà per scontata nelle affermazioni della vita quotidiana, Garfinkel escogita la tecnica di dimostrare incomprensioni dinanzi alle affermazioni più ovvie, oppure di comportarsi in modo completamente diverso da quello usuale e atteso dagli altri soggetti. Così all’affermazione “Ho forato una gomma”, i ricercatori sociali afferenti all’etnometodologia, ma anche gente comune, possono replicare: “Che intendi per forare una gomma?”; oppure ci si può improvvisamente comportare nella propria casa come se ci si trovasse in un albergo chiedendo il permesso per fare le cose più banali come il permesso per poter telefonare. La sorpresa e lo sgomento, ma anche l’irritazione che tali comportamenti provocherebbero sono gli indicatori, secondo Garfinkel, della precarietà e della fragilità dell’ordine sociale che si dà per scontato.

Ma che cosa, esattamente, si vorrebbe dare per scontato? Quali sono gli impliciti che, da una certa prospettiva, puntellerebbero stabilmente la relazione? Il senso comune? Sappiamo che non è assolutamente comune. Le consuetudini, i comportamenti? Ci vuole occhio, attenzione, e disponibilità a fare dell’altro un parametro costante del nostro agire. La conoscenza appunto dell’altro? Forse, ma siamo in grado di ricordarci sempre, in ogni circostanza, chi abbiamo davanti – anzi, a fianco?

O forse vorremmo dare per assodata la cura che riempie ogni gesto rivolto all’altro?

Mettici olio e sale sulla carne, è più bbuona!

– Sono grande a sufficienza da sapere quello che voglio!

Universi lontanissimi, scontro di titani. La cura (dalla radice KU/KAU/KAV, osservare) scambiata per l’invasione. E’ vero, l’amore può spesso tramutarsi in una terapia invasiva, ma non per questo bisogna contrapporre l’attenzione per l’altro alla libertà: infatti, mai come in una relazione di coppia, la libertà consiste nel dire di no: a se stessi.

Ma ti costa molto chiedere per favore? Evitare quel tono arrogante?

– Ma queste sono formalità! L’importante non è il tono, ma il fatto che ti voglio bene assai! Il tono educato si usa con gli sconosciuti!

– E allora trattami da sconosciuta, ogni tanto, anche si mi vuoi bene…

La buona educazione – e la sua perversa deformazione del politically correct – sono, da sempre, dei modi di mantenere, se non addirittura aumentare, la distanza tra le persone. Ingabbiare una relazione, di qualsiasi tipo, dentro i canali precostituiti del galateo, dentro le formalità di un discorso predefinito, dentro un vero e proprio ordine del discorso (che rapidamente si capovolge in un discorso dell’ordine), significa, in ultima analisi, non avere un reale interesse nei confronti dell’altro.

Non è mica detto che si debba, ovvio. Ma da un partner me lo aspetto, come minimo.

Allora la tanto sbandierata empatia – spesso confusa per una caratteristica prettamente femminile – che si esprime in un cordiale interesse per le vicende altrui, si svela per quello che è davvero: un stratagemma formalmente ineccepibile per mantenere l’altro (le sue emozioni, le sue percezioni, il suo sentire) lontano da me.

L’altro è fatica, c’è poco da fare. Bisogna allenarsi, con costanza, con intelligenza; bisogna cominciare presto, da bambini, abituarsi subito alla limitazione della nostra sovranità: perchè questa, al massimo della sua estensione, governerebbe su un’isola deserta.

* e su questo si potrebbe aprire un intero capitolo socio-antropologico sull’incompatibilità dei connazionali…