D.ita

Posted on 14 luglio 2010

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Questa è una di quelle storie che esistono sono nella misura in cui vengono raccontate e diffuse. Perchè, se rimanesse solo nella forma del ricordo, assumerebbe presto gli sfumati contorni di una fantasia. Una di quelle storie che suscitano la medesima reazione nel narratore e in chi le ascolta: un misto tra l’incredulità e la consapevolezza che talvolta la realtà supera le immaginazioni più spinte.

Con un certo sottofondo di disagio – che nasce da un doppio limite: il non voler socializzare e il non saperlo fare in francese – mi reco a una festa di compleanno in un bar del Marais. E’ la sera del 13 luglio, la vigilia della Festa Nazionale della Francia, e le strade sono popolate di gente che sa di non doversi alzar presto all’indomani. Fa caldo, ma non troppo, abbastanza da scoprire gambe e spalle. Si è in pista e bisogna ballare e così, memore dell’osservazione di un amico poeta, il quale sosteneva di bere non certo per rendersi più interessante agli altri bensì per rendere gli altri più interessanti, chiedo il mio primo vodka-tonic. Mi arrischio anche – cosa non si farebbe per non perdere le care vecchie abitudini! – a chiedere al barista se ha della Schweppes al limone, e naturalmente, dato che a Parigi non sanno cosa sia un vodka-lemon, mi guarda come se fossi appena uscito da un manicomio.

Al terzo vodka-tonic comincio lievemente a rilassarmi, tanto da farmi sfuggire qualche parolina in francese, e in un franglais più anglais che francese comincio a tenere banco dal mio lato del tavolo. La serata, in fondo, scorre liscia, e riesco persino a permettermi qualche leggera insolenza – i francesi, così permalosi… Il bar in cui ci troviamo è piccolo ma carino e ha tutte le porte aperte sulla strada. Intorno alla mezzanotte, un po’ per il caldo all’interno ma soprattutto perchè tutti gli accoliti sono incalliti fumatori, ci ritroviamo sul marciapiede, sigaretta in una mano e bicchiere nell’altra.

Lo sguardo si sposta rapido tra le conversazioni incrociate che mi circondano, i bicchieri che mi sbrigo a svuotare, e i passanti, di cui mi diverto a immaginare le destinazioni e il modo in cui termineranno la serata. Pur cercando di schivare le chiacchiere, vengo tuttavia rapito in una discussione sulla struttura urbanistica di Parigi, e mi sorprendo a sorprendere gli indigeni con delle osservazioni in realtà banali: che Parigi non è una sola, ma sono tante zone con anime e atmosfere diverse, che quindi è una citta a compartimenti, orizzontale, che con un po’ di ottimismo e buona volontà (due dei miei più acerrimi nemici) ci si può costruire una “propria” città, e che in essa prevale a dismisura – come del resto nella lingua francese – la frenesia dell’ornamento e della decorazione, che di per sè nulla hanno a che vedere con l’idea di bellezza. Non faccio in tempo a terminare la lista di osservazioni che un tipo sulla quarantina passata, con degli spessi occhiali in celluloide e una camicia di lino rosso tutta stropicciata, dalla mie spalle mi chiede se il bar possiede dello champagne.

– Suppongo di sì. Può chiedere all’interno.

Il tipo si volta di spalle e comincia a confabulare con la sua piccola comitiva, composta da un altro suo coetaneo e due donne, una bionda e una mora. Guardo la mora. Qualcosa accade che mi spinge a richiamare il mio cervello dal letargo alcolico in cui lo stavo affogando. Le sinapsi ricominciano arruginitamente a riattivarsi e io che non ricordo mai un nome, vedo lampeggiare all’interno della mia fronte, in un neon rosso, il nome di Dita Von Teese.

Non smetterò mai di ringraziarti, amico mio alcol!

Yeah o yeah you seen me walk
On burning bridges
Yeah o yeah you seen me fall
In love with witches
And you know my brain is held
Inside by stitches
Yet you know I did survive
All of your lovely sieges

And you know that I’ll pick up
Every time you call
Just to thank you one more time
Alcohol

And you know that I’ll survive
Every time you come
Just to thank you one more time
For everything you’ve done

Alcohol
Alcohol

And I’m sorry some of us
Given you bad name
yeah o yeah, cause without you
Nothing is the same
Yeah o yeah I miss you so
Every time we break up
Just to hit a higher note
Every time we make up

Who’s crawlin’ up my spine – alcohol
I’ve been waiting long long time – alcohol
Now you teach me how to rhyme – alcohol
Just don’t stab me in the back with cartisol

Now we reunite – alcohol
And forever be divine – alcohol
Screw a light bulb in my head – alcohol
may that ceremony be happy or sad…

E’ un attimo. Realizzo tutto in un microsecondo, e ne vado pure fiero: realizzo che posso parlare in Inglese e mi capiranno; realizzo che sono un po’ allo sbando, non vedo energumeni o telecamere intorno, sono usciti per fare serata, come tutti; realizzo, soprattutto, che una cosa del genere non capita due volte nella vita. Intorno a me c’è il deserto ora e io cammino spedito verso il miraggio: vado dal tipo, gli tocco un braccio.

– Vuole che vi procuri dello champagne?

E con il sorriso più maschio di cui sono capace la guardo, anzi la vedo. Non posso dire di averla davvero guardata, non ho fatto caso a un solo dettaglio, ma solo e semplicemente l’intera immagine sua, illuminata di una luce propria, ha colpito le mie retine.

Poi, lei, lei stessa, anticipa l’occhialuto e con un candore da educanda e un sorriso che mi arriva come un jab diritto in mezzo alla fronte, mi fa:

Sarebbe molto carino!

Sono dentro al bar, ho una missione da compiere, in nome di dio! Vado direttamente dietro al bancone, afferro il barista per un braccio e gli appiccico lo sguardo più maschio di cui sono capace in mezzo agli occhi.

– Il miglior champagne che hai, immediatamente. E quattro bicchieri.

Avevo già messo in conto la rissa, e scopro invece che il ragazzo ne deve aver viste di scene peggiori. Si china e con troppa calma apre il frigo e comincia a rimestare tra le bottiglie. Io, nel frattempo, ho già adocchiato i flutes e me li sto posizionando capovolti tra le dita. Dita.

Verifico l’etichetta della bottiglia, annuisco e la apro con sicumera. Negli otto passi che mi portano fuori il mio cuore si riempie di paura. E se se ne fossero andati? E se questo è solo il delirio di un ubriaco? Ma prima che la paura sorga, la luce di lei l’ha già annichilita. La guardo ora, con un velo giallo a mo’ di scialle, le scarpe in tinta, il vestito a fiori color pastello sopra il ginocchio, i capelli raccolti in uno chignon, ondulati sulla fronte. Bianchissima, luminosa, fatte salve le labbra rossisime e gli occhi nerissimi. Arrivo, felpato, sicuro. Almeno questo è quello che vedo di me stesso.

– Ecco!

Lei Sorride. E io mi faccio leggero come una piuma, come se l’interno del mio corpo fosse vuoto, una mera cavità che accoglie quel sorriso. Allungo la mano col palmo in alto ai due accompagnatori ed alla bionda, affinchè dalle mie dita afferrino i loro bicchieri; quando ne resta uno solo, tenendolo tra medio e anulare per il suo gambo, lo giro, lo avvicino a lei, e comincio a versare. Novello Ganimede.

Beh, grazie infinite… a te!

– No, alla notte… – E prendo una sorsata dalla bottiglia.

Non ho parlato io, sono stato parlato. Io, io, “io” non può aver detto una cosa del genere. Altri si sono impossessati del mio essere, a riprova che qualsiasi concetto di identità altro non è che un divertissement dell’Essere.

Poi faccio una cosa, anzi quattro. Sorrido come di circostanza, inchino leggermente il capo in un gesto insieme di saluto e ossequio, mi giro e mi allontano, indirizzandomi verso i miei accoliti della serata.

I quali hanno assistito a tutta la scena in perfetto silenzio, sbigottiti. Un conoscente mi chiede perchè non sono rimasto a parlare con lei.

– Parce que aimer c’est donner quelque chose qu’on n’a pas à quelqu’un qui n’en veut pas.

Amare è dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole.

Cioè? – Mi fa il francofono che ha compreso la struttura grammaticale della frase ma non certo il suo significato.

Perchè apprezzare l’opera di un artista e poi conoscerlo è come mangiare foie gras e poi conoscere l’oca.

E questa frase, questo ponte gettato verso la realtà prosaica degli organi e dei corpi, mi strappa all’abbandono di una notte.

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