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Come quei grandi grattacieli di Honk Kong, o di qualche new city cinese. Altissimi, squadrati, alveari per una popolazione di uomini che con le api ha in comune solo il pungiglione. Le vedi le facciate, fatte di finestre tutte uguali, senza ritmo, a poca distanza l’una dall’altra eppure senza nessun punto di contatto. Così siamo, come quelle finestre, persi in un deserto cementificato di sentimenti.
Non si può parlare nemmeno più d’individualismo, il concetto è stato superato dalla realtà. Né di arcipelaghi, che almeno sono uniti dalle correnti. Finestre, siamo. Solo che ora abbiamo i doppi vetri, e siamo insonorizzati al mondo e agli altri.
Nel bussino elettrico, stamani, è salito un barbone. Puzzava, ma non troppo, di vino, e non era tanto in mal arnese: le mani pulite e ben fatte, segno che in una vita precedente l’uomo non aveva faticato; i vestiti decenti, la barba di un paio di giorni appena. Una busta sola, con il Tavernello, in una mano, e un fazzoletto di stoffa nell’altra, con cui si asciugava il sudore. Sta zitto per un po’, seduto accanto a me, fino a quando non realizza che alla sua destra la coppia di anziani signori sono americani. Gli rivolge la parola in un Inglese perfetto, con accento americano.
– Di dove siete?
– Veniamo da Boston – risponde l’uomo, con la buona educazione che gli americani riservano tipicamente agli stranieri che gli rivolgono la parola nella loro lingua.
– Ah, bella città… mio cugino vive lì, è il boss della città…
L’americano, a questa frase, alza i primi muri: smette di rispondere e s’incupisce.
– Andavo spesso a Boston, ero pilota. Compravo gli aerei usati in Kansas, li riparavo e li portavo in Venezuela, dove li vendevo.
Continua da solo, il barbone; l’americano ha smesso anche di ascoltare.
– Avevo tre carte di credito, un’American Express Gold, senza limiti. Ora vivo in strada. E’ incredibile come la vita ti possa cambiare da un minuto all’altro.
Il suo Inglese è impeccabile, anche se ora percepisco un leggero accento ispanico.
– Sono malato, ho cinquant’anni e me ne sento settanta…
– Spero che guarisca – dice i l turista. Il senso di colpa, il motore della storia americana.
– Non avrebbe per caso qualche euro?
– No.
L’americano si gira di traverso sul sediolino del bus, a dare le spalle all’ex-pilota. Dopo un po’, questi si gira verso di me e in Italiano con cadenza ispanica mi chiede l’ora. E niente più.
Prima di scendere gli do venti euro.
– Non berteli tutti, mangia qualcosa – gli faccio in Spagnolo.
– Dio bbuono, dio bbuono… grazie ragazzo, sei un buon ragazzo…
– Vai a mangiare qualcosa, non ti dimenticare.
– Sì sì, sono due giorni che non mangio – dice, lacrimando.
Lo guardo dal finestrino del bus mentre scendo. Il bus riparte, lui non mi guarda, sta cercando un posto dove nascondere i venti euro che gli ho dato. Piange. E’ mortificato e commosso allo stesso tempo, suppongo. La finestra del bus mi porta via questa storia, e mi lascia più forte che mai l’impressione che intorno a me le finestre sono quasi tutte chiuse, che il sole non scalda le vite di luce artificiale di chi credevo essere amico o almeno umano, che nell’alveare delle nostre piccole case siamo tutti api regine e che a fare il miele sono sempre i soliti quattro stronzi.
Sono ormai al di là della delusione. Al di là del giudizio. Io sono la sentenza passata in giudicato. Posso solo diventare condanna, per quanto speri che ciò non accada mai. Nelle finestre sigillate delle vite altrui si consuma come vapore la Vita.
ANNA FIORENTINO
11 giugno 2010
Hai proprio ragione, FINESTRE SIAMO!
Complimenti scrivi benissimo, a presto Anna
Tessa
7 luglio 2010
“Così siamo, come quelle finestre, persi in un deserto cementificato di sentimenti”… non è da te questo sentimentalismo.
E poi che vuol dire? Le finestre si aprono, si chiudono, fanno entrare e uscire aria, luce, suoni, odori; dalle finestre ci si può affacciare, si può perfino uscire.
Magari fossimo finestre…
abcdeeffe
8 luglio 2010
“Solo che ora abbiamo i doppi vetri, e siamo insonorizzati al mondo e agli altri.”
Quest’ottimismo, comunque, non è da te. Io, invece, sono sempre stato un sentimentale. Non l’hai mai notato?
bibliotecabiomedica
8 luglio 2010
Via, non è da te questa banalità di pensiero. Comunque, sentimentale sì, sentimentalista no.
abcdeeffe
8 luglio 2010
Occhio a non confondere la banalità con la semplicità, che è il prodotto finale di una ricerca complessa. A volte le cose sono semplici, quasi ovvie. In questo caso, l’immagine delle finestre di un grattacielo di Honk Kong secondo me rende l’idea, anzi tante idee insieme: la serialità, la vicinanza fisica eppure enorme distanza umana, la possibilità (come dici tu) negata (come aggiungo io) di apertura. Poi magari ci sono immagini migliori, non ne dubito… qualche idea?