Time you enjoyed wasting, was not wasted
John Lennon
Ci sarebbero molti modi per produrre un’argomentazione serrata a favore dell’ozio, inteso latinamente come otium, ossia come predilizione e abbraccio di una vita speculativa. Il tema non è nuovo ed è stato ampiamente sviscerato; basta guardare alla bibliografia citata nella pagina “ozio” di Wikipedia per farsene un’idea:
- Robert Louis Stevenson (), Elogio dell’ozio, stampaalternativa
- Bertrand Russell (1963), Elogio dell’ozio, Longanesi & C.
- Paul Lafargue (2009), Il diritto alla pigrizia (e qualche preghiera capitalista), Piano B.
- Gianni Fantoni (1995), Breve, ma utile, guida alla Pigrizia, Zelig Editore
- Domenico Demasi (2002), Ozio Creativo, Rizzoli
- Cesare Catà, Significato e importanza del concetto romano di otium. Uno spazio per lo spazio dell’anima quando l’universo infinito non si muove, in S. Polci (a cura di), Roma e i benefici dell’ozio, Roma (2005), pp. 7-43.
- Jean Soldini (2005), Il riposo dell’amato. Una metafisica per l’uomo nell’epoca del mercato come fine unico, Milano, Jaca Book.
- Tom Hodgkinson (2005), L’ozio come stile di vita, Rizzoli
Io che sono una persona pigra, sono stato spesso accusato – con diversi gradi d’intensità – di essere un nullafacente, un ozioso, uno che getta al vento i suoi talenti e le sue capacità et similia. Probabilmente, fino a quando non sono diventato adulto, in questi strali era depositato un fondo di verità; ma nel momento in cui si è trattato di fare delle scelte che avrebbero condizionato fortemente gli anni a venire – in questa capacità e in questa assunzione di responsabilità io ravvedo l’ingresso all’età adulta – ho preferito impostare un percorso al di fuori delle logiche comuni: quindi niente ricerca forsennata del posto fisso o del posto ben retribuito, niente aspirazioni alla carriera, nessun tipo di stabilità, nè finanziaria nè emotiva. Alla base di quest’impostazione sta anche, e in buona misura, l’enorme valore che io attribuisco al tempo e all’essere.
Per spiegarmi meglio faccio un esempio immaginario.
Supponiamo che io abbia un caro amico che lavori in Borsa, nel ramo dell’alta finanza, e che guadagni moltissimi soldi, a fronte, però, di una vita frenetica e qualitativamente mediocre, quasi esclusivamente organizzata intorno alle esigenze lavorative. Lui, che prende un abbondante salario più tutta una serie di lauti benefits, mi dice che se dovesserlo pagarlo all’ora secondo i correnti prezzi di mercato, la tariffa ammonterebbe a 1.500 € per 60 minuti.
Dopodichè questo amico, che mi conosce da tanti anni e mi vuole bene, si prende la briga di farmi una bonaria ramanzina:
– Ma come? Uno intelligente come te, che parla le lingue, con un bel curriculum – e sei finito a fare lo sguattero nella cucina di un ristorante? Ma perchè non ti cerchi un lavoro serio, che ne so, in una banca o in una agenzia di consulenza?
Al che io rispondo:
– Senti, ma tu quanto guadagni all’ora?
– E questo che c’entra?
– C’entra c’entra… dimmi: quanto prendi all’ora, mediamente?
– Diciamo 1.500 euro.
– E quante ore lavori al giorno?
– Dalle otto di mattina alle nove di sera, a volte anche fino alle dieci o alle unidici, dipende…
– Ma hai una pausa pranzo, immagino?
– Si, 45 minuti, ma di solito mi prendo un panino al bar perchè non mi piace strafogarmi di fretta.
– Ecco. E quanto saresti disposto a spendere per lavorare di meno?
– Come???
A questo punto il mio caro amico mi guarda stralunato, un po’ perchè non capisce dove voglio andare a parare, e un po’ perchè sospetta, conoscendomi da tanti anni, che io stia andando a parare da qualche parte ove lui non si sentirà più a suo agio.
– Per esempio, per un’ora di lavoro in meno al giorno, saresti disposto ad acconsentire ad una decurtazione di 1.500 euro dal tuo stipendio?
– Vabbè che c’entra, io mica vengo veramente pagato all’ora! Sarei miliardiario a quest’ora! I 1.500 euro all’ora sono solo il prezzo di mercato, ma poi intervengono un sacco di altri fattori nella determinazione del salario e…
– Appunto, il prezzo di mercato. E tu che di mercati ne capisci, dimmi un po’, un’ora di libertà quanto la paghi?
– …
– Mi spiego? Se dovessimo monetarizzare la libertà, la possibilità di disporre del nostro tempo e d’impiegarlo per il nostro benessere, o anche no, ma insomma, di farne ciò che ne vogliamo, quanto saremmo disposti a pagarlo? Decidi tu quanto costa un’ora di libertà, moltiplica il prezzo per le ore che io NON lavoro e ti accorgerai che tra me e te, guadagno di più io. O meglio, il mio mancato guadagno equivale al prezzo che io pago per essere libero, ed è un prezzo molto alto…
Di fronte a questo ragionamento, il mio amico, che mi vuole bene ma che non è esattamente una persona portata alla riflessione, ride sonoro, mi assesta una pacca sulla spalle e, visto che è un uomo assai generoso, mi fa:
– Vabbè ho capito, offro io da bere, andiamo…
E finiamo al bar.
Ora, risolta la questione dell’importanza del tempo*, bisogna ancora affrontare quella dell’essere.
Il punto è semplice: oggi, presso quella minoritaria parte di mondo genericamente nota come “occidentale”, l’essere è identificato col fare. Quando conosciamo una persona la prima cosa che ci interessa sapere è cosa lui o lei faccia per vivere: in altre parole, la qualifica professionale si sovrappone e influenza, alterandola, la valutazione della persona umana. Non si dice: “è una brava persona” o “è un tipo originale” o ancora “è uno di cui è meglio non fidarsi”, ma si dice, d’acchitto, “è un ingegnere”, “è un consulente”, “è un operaio” e così via.
Il fare poi, prende il sopravvento sull’essere perchè tiene occupati la mente e il corpo. Come si fa a osservare se stessi, il mondo e il suo sistema di relazioni, se si è occupati a fare dell’altro? Non parlo di una perenne autoanalisi, sia chiaro: l’uomo che non fa esperienza del mondo è privo della stessa materia del suo pensare, e per questo è un uomo senza contenuti. Ma al contrario, l’uomo che si dedica completamente a un’attività – foss’anche un’attività che richieda una forte componente di pensiero -, s’immerge tanto in essa che, come il subacqueo in fondo al mare, la sua vita n’è interamente circondata. E del subacqueo egli assume tutti i rischi, in primo luogo quello di venirsi a trovare, a un certo punto, in assenza di ossigeno, sperduto in una vastità priva di direzione.
Chi invece attribuisce al lavoro un mero ruolo funzionale (procacciare lo stretto necessario a una vita dignitosa), sottrae ad esso una grossa fetta di tempo, che può essere impiegato in maniera più costruttiva per sè e per il suo entourage; come? In mille modi diversi, ma tutti caratterizzati da un solo tratto comune: l’assenza di lucro. In fondo l’otium non equivale all’inedia – come erroneamente si crede – ma alla predilizione di una vita speculativa, che rifletta su di sè e sul mondo, attraverso tutti quegli strumenti che consentano al pensiero di farsi più fine ed acuto.
Insomma, in soldoni, l’unica vera liberazione è quella dal lavoro!
* Avevo già scritto, parlando di aeroporti:
Che il tempo sia una risorsa quantificabile e commerciabile, l’economia lo sa benissimo, e così un certo sapere diffuso (ma non popolare), che lo riassume nell’equivalenza “il tempo è denaro”. Risulta paradossale allora, come si possa indurre qualcuno, richiedergli, persino spingerlo a desiderare di pagare per il proprio tempo. Pagare, cioè, per una risorsa propria, che ci appartiene. Come se, per lavorare, non solo bisognasse ma addirittura si volesse pagare e non, al contrario, essere pagati. In questo rovesciamento dei termini sta la genialità perversa del capitalismo contemporaneo.
Tale cultura parte da un assunto negativo: l’assioma che non occupare il tempo sia, nel migliore dei casi, un peccato, e nel peggiore, un crimine. Il nostro tempo – soprattutto quello libero da mansioni obbligatorie – deve diventare il luogo dell’occupazione organizzata, lo spazio vuoto che viene riempito dallo shopping, dai massaggi shiatsu, dalla navigazione in rete, e persino da un gesto così poco salutista come fumare una sigaretta. E tutto ciò, non sorprende, è a pagamento. Il nostro tempo viene consumato dall’occupazione, concreta e simbolica, da parte di agenti principalmente commerciali. Ma bisogna capire che nel momento in cui qualcuno ci crea ed allo stesso tempo organizza il nostro tempo libero, egli ce ne sta in realtà privando.
Davide D'Angelo
4 maggio 2010
direi che il Beato sta per essere promosso Santo 😉
premesso che trovo piu’ stimolante sottolineare i pochi punti dolenti del tuo discorso che innaffiare d’incenso i tanti che condivido ti dico: rileggi il capoverso sulla vsione del lavoro come qualificativo della persona sostitendo a “ingegnere”, “operaio” e “consulente” le parole “scrittore”, “musicista”, “ricercatore” e dimmi se ha ancora senso. In altre parole ci sono lavori che non qualificano l’individuo, o almeno non lo fanno per noi snob occidentellettuali di merda, ma altri che si. Io mi sento qualificato dal mio lavoro.
abcdeeffe
4 maggio 2010
Bravo, me l’aspettavo.
Dal mio punto di vista non cambia nulla. Nel momento in cui una professione cosiddetta artistica si professionalizza (scusa il gioco di parole), perde in libertà – in misure mutevoli, è ovvio. Come quegli scrittori/musicisti/artisti che la prima opera la fanno in preda al sacro fuoco dell’arte, quelle successive solo perchè c’hanno preso gusto al successo e ai soldi. Discorso simile, ma più delicato, per i ricercatori: ferma restando l’importanza dei finanziamenti alla ricerca, chi mi dice che il ricercatore che viene allettato dalle grandi multinazionali (vedi Big Pharma) non cominci a fare una ricerca solo profit-oriented? Sai bene che non sono moralista, ma il problema esiste.
Se ciò è vero la situazione è ben peggiore di quella dell’operaio o del consulente: almeno costoro non fanno mistero che lavorano per i soldi, mentre artisti & Co. hanno pure la pretesa di dire che i loro motivi sono più “alti”. Essi allora si qualificano, in modo doppiamente negativo, per la loro professione e per la loro ipocrisia. Così facendo, perdendo di libertà e umanità.
Tuttavia, riconosco che la dimensione del lavoro è ancora una dimensione importante e caratterizzante. E’ per questo che io distinguo tra “lavoro” e “lavorìo”. Il lavorìo può persino essere più faticoso del lavoro-professione, (vedi http://www.etimo.it/?term=lavorio ) ma è svincolato dalle di lui logiche di produttività e profitto. Pensa a chi tutta la vita la passa a collezionare e catalogare insetti, o a chi si danna l’anima per capire un pezzo del nostro passato attraverso l’analisi di una pergamena. Io non e l’ho con il “fare” in sè, ma con il “fare” che nasconde, copre, contorce l’essere. Cioè con il “fare” prettamente capitalista.
NB: non sto dicendo nulla di nuovo. Aveva già detto tutto Marx quando parlava di valore d’uso e valore di scambio e Baudelaire in un saggetto dal titolo “De l’idée moderne du progrès appliquée aux beaux arts” – http://litteratura.com/exposition_universelle.php?rub=oeuvre&srub=cri&id=259
Davide D'Angelo
4 maggio 2010
Ti racconto una storiella “che non c’entra un cazzo, ma che piace ai gio-va-ni”
(http://www.youtube.com/watch?v=sxdDao_9ph8)
Avevo un amico immaginario che un giorno, teorizzando di fronte ad un barattolo di nutella, mi disse:
“ci hai mai pensato che tutti i piaceri della vita sono legati all’introduzione o all’estroduzione di corpi estranei o sostanze nel nostro corpo?”. Seguiva un lungo elenco che pretendeva di essere esaustivo e che credo sia superfluo riportare in quanto la piu’ basilare immaginazione di chiunque puo’ felicemente sopperire. Circa dopo “scorreggiare” (forse in quindicesima posizione) lo interruppi dicendo “e il piacere di fare una foto?”, felice come al solito di aver trovato l’inghippo.
Il mio amico e’ una persona molto portata alla riflessione, ma non al punto da lasciare che questa prenda il sopravvento su uno scoperchiato barattolo di nutella che ancora offra spudorata vista sulle sue interiora consunte a meta’. Cosi’ interdetto per la mia affermazione interruppe l’elenco di quell’input/output carnale, tuffo’ il cucchiaino nel mare marrone in tempesta, lo adagio’ capovolto sulla lingua e socchiuse gli occhi con un’espressione di puro piacere che mi fece dubitare di aver detto qualcosa di effettivamente sostenibile.
beh l’avevo detto che non c’entrava un cazzo no?
abcdeeffe
4 maggio 2010
bellina questa storiella! Ma non è che il tuo amico immaginario avesse specificato che la sua teoria s’applicava ai piaceri “fisici” – quindi non legati a un giudizio estetico? No, perchè se così fosse, diciamo che potrei persino concordare! 😉
Davide D'Angelo
5 maggio 2010
Ma te la ricordi questa discussione? nel giardino di casa dei tuoi a Caserta.
abcdeeffe
5 maggio 2010
Sei sicuro che non fosse a Firenze? Io quella teoria la imparai in Messico, molto probabilmente nel ’99, perchè me la disse un mio amico con cui vivevo. Da’, qua a memoria stiamo messi una chiavica! 😉
DZ
5 agosto 2010
Questo articolo mi fa sentire a casa e scommetto che non ne avresti dubitato 😉
Un solo appunto; eviterei, nel caso dell’argomento trattato qui, l’uso del venerando e terribile termine “essere”. Non c’è infatti contraddizione tra il fare e l’essere, per il semplice motivo che facciamo sempre qualcosa, e la parola “essere” l’applichiamo come un’etichetta ad indicare velocemente il notro tipo di attività. La differenza notevole è invece tra il fare libero e il fare condizionato. (L’unico fare perfettamente libero è la contemplazione, cioè la forma di pensiero assolutamente inutile, il cui fine è in se stessa. L’unica attività che “scappa alla macchina”, ossia all’imperio della specie, dell’animalità meccanica e idolatrata).
Ma in essenza, distinguo terminologico a parte, mi pare che diciamo la stessa cosa.
abcdeeffe
5 agosto 2010
Hai ragione, ci pensavo ieri. La distinzione tra “fare” ed “essere” voleva infatti solo essere linguistica, e mai suggerire un’ontologia statica, essenzialista. In fondo i soggetti stessi “si” fanno. Ho cercato di precisarlo nel secondo commento di questo thread, distinguendo tra lavoro e lavorìo. Mio malgrado, ho scritto un post che puzza di “natura”…
Luigi B.
21 marzo 2011
Appoggio e calco la mano
http://www.stroboscopio.com/grazie-a-dio-mi-hanno-licenziato/2010/02/18/
http://www.stroboscopio.com/lettera-aperta-a-morgan-palmas/2010/03/15/
Luigi B.