Il problema di leggere molto in rete è quello che uno non si ricorda mai dove ha letto cosa. In realtà è lo stesso problema di chi legge molto e basta. Si legge e si dimentica (si legge per dimenticare, diceva CB). Ma per uno che è cresciuto a pane e note a piè di pagina, questo rappresenta ancora un handicap della dignità: pare di fare un torto a usare l’idea o la frase di un altro, senza citarlo. Facile credere nel copyleft, quando non hai subito per anni un lavaggio del cervello accademico, per cui ogni tua idea va difesa a denti stretti e il sapere va condiviso solo dopo averlo pubblicato.
La rete non è così, però, e io sono solo un vecchio residuato di un’accademia che non c’è più, anzi, che non c’è mai stata se non nella mia testa. Fatto sta che qualche tempo fa ho letto da qualche parte in rete, e non sono riuscito a ritrovarlo, che la cifra dei tempi presenti è la bulimia dei commenti. O, per dirla in altro modo, che la possibilità che offre il web 2.0 di dire di tutto su tutto, ma soprattutto di commentare quello che altri hanno detto o fatto, costituisce un nuovo paradigma della comunicazione contemporanea, se non il paradigma.
Pensate al tastino/icona/link in calce al vostro status di Facebook. Sì, il vostro. Perchè, c’è qualcuno lì fuori che ancora non ha un account su Facebook? Stento a crederlo. Il tastino “Comment”. Eccolo lì.
Dì la tua, forza!
Commenta!
Fammi sapere cosa ne pensi! Anche se non te l’ho chiesto!
Non vorrai mica censurarti?
Se ci pensate, la nozione stessa di web 2.0 si sovrappone in massima parte alla funzione/possibilità di commentare: per ogni user generated content ci sono centinaia di user generated comments. Togliete i commenti, e la rete crolla.
Conseguenze? Diverse. In primo luogo, viene meno l’idea stessa di valore: l’unico ordine che hanno i commenti è spesso soltanto cronologico. Esiste il rating, è vero: ma rating sta a valore come quantità sta a qualità. In secondo luogo, si alimenta una pericolosa forma di bulimia, quella delle opinioni.
Ora, non vorrei passare nè per censore nè per reazionario, perchè non sono nè l’uno nè l’altro. Ma mi chiedo: se cerco un’informazione o la narrazione di un fatto, o se voglio semplicemente fruire di un contenuto in rete, perchè devo sorbirmi anche le opinioni altrui? Non che non le rispetti, sia chiaro, ma non le ho chieste.
[Tutto cominciò, a dire il vero, con i telefonini. Ma perchè mai, camminando per strada o peggio stando seduto in autobus o in treno, deve essere costretto a farmi gli affari degli altri? Ad essere informato di vicende che non mi riguardano? Ad ascoltare gente chiacchierare, spettegolare, litigare, gridare?]
Ci sono – come è giusto che ci siano – luoghi opportuni e situazioni apposite per esprimere la propria opinione in merito a qualcosa; ci sono persino delle regole e qualcuno che cerca di farle rispettare: penso ai forum specialistici. Eppure, il grosso dei cosiddetti social networks (Facebook, Twitter, YouTube e via discorrendo, ovvero i non-luoghi della socialità contemporanea) non solo ti dà la possibilità, ma t’invita a dire la tua, a commentare su qualsiasi cosa.
[Domandine leggere leggere: chi c’è a monte di questa pseudo-possibilità? Chi ha deciso di darmi/ci la possibilità di commentare? Chi sta decidendo, concretamente, senza che io me ne accorga, le modalità del mio rapportarmi agli altri esseri umani? Chi fa della libertà di espressione solo una pulsione scevra di ogni contenuto?]
Conseguenza principale: la comunicazione si riduce a poche centinaia di caratteri in calce a dei contenuti non nostri (e anche qui i telefonini con i loro sms furono precursori…). Diciamolo chiaramente: commentare, spesso e volentieri, significa non pensare. Chi commenta non ha un pensiero originale, ma derivato – più spesso, abortito… Nulla di male in ciò, non si può e non si deve mica essere dei geni per forza, no? Vero. Ma almeno si potrebbero fare due cose buone: la prima, per se stessi, sarebbe quella di sforzarsi di produrre dei contenuti, invece di citare / commentare / chiosare / osannare / condannare / insultare le idee e le opere degli altri; la seconda, per il resto del mondo, sarebbe quella di rispettare la loro privacy, il loro senso di decenza, la loro stessa possibilità di scegliere di non ascoltare, scegliendo al contrario, liberamente, saggiamente, con decenza e misura, di non dire.
«E’ su quest’altra e più oscura faccia della potenza che oggi preferisce agire il potere che si definisce ironicamente ‘democratico’. Esso separa gli uomini non solo e non tanto da ciò che possono fare, ma innanzitutto e per lo più da ciò che non possono fare. Separato dalla sua impotenza, privato dell’esperienza di ciò che non può fare, l’uomo odierno si crede capace di tutto e ripete il suo gioviale ‘non c’è problema’ e il suo irresponsabile ‘si può fare’, proprio quando dovrebbe invece rendersi conto di essere consegnato in maniera inaudita a forze e processi su cui ha perduto ogni controllo[…] Nulla rende tanto poveri e così poco liberi come quest’estraniazione dell’impotenza. Colui che è separato da cio che può fare, può, tuttavia, ancora resistere, può ancora non fare. Colui che è separato dalla propria impotenza perde invece, innanzitutto, la capacità di resistere»
Giorgio Agamben, Nudità
PS: Tutto questo post poteva ridursi alle seguente affermazione: “E’ meglio stare zitti e passare per stupidi che aprire bocca e togliere ogni dubbio”. E questa, se non mi ricordo male, dovrebbe essere di Confucio…
Giacomo
20 febbraio 2010
chi c’è a monte di questa pseudo-possibilità? Chi ha deciso di darmi/ci la possibilità di commentare?
Il mercato, o meglio i suoi alti operatori, interessati a perseguire l’obiettivo della completa manipolabilità dell’esistente mediante l’abbattimento di ogni ostacolo: diritti universali, dignità umana, natura umana, intollerabilità, “cose che non si possono dire”, political correctness… – dando per scontato che ognuno di questi ostacoli aveva il suo lato oscuro e ambiguo, da individuare ed eliminiare mediante la discussione argomentata e regolamentata (razionale, accademica). È proprio questa “discussione razionale” (e la costruzione dell’autonomia che ne seguiva) che gli alti operatori del mercato vogliono soppiantare – e prima ancora squalificare, facendo sì che sia bollata come superata, conservatrice, moralista, elitaria, sconnessa con la realtà e col vissuto ecc. (Un complice volentoroso (e stupido) lo hanno trovato nella chiesa cattolica, desiderosa di fare piazza pulita di ogni ideologica antagonista e speranzosa di poter ricostruire nel deserto – ma destinata, anch‘essa, a essere travolta.)
PS Credo che la censura svolga sempre una funzione positiva, dato che costringe ad esercitare l’autodisciplina, il discernimento, l’astuzia.
Giacomo
20 febbraio 2010
Mi scuso per questo commento-appendice, ma specifico per non sembrare troppo astratto: quando parlo di «completa manipolabilità dell’esistente» intendo sfruttamento del lavoro, desindacalizzazione, perdita delle libertà civili e delle garanzie di fronte a giudici e forze dell’ordine (apertura a pratiche come la tortura), scomparsa della solidarietà sociale, caduta dell’ordinamento internazionale ecc. – insomma: tutti i limiti che la discussione ai vari livelli e in varie sedi precisava. Per arrivare a questo è fondamentale realizzare l’equivalenza di tutte le opinioni, l’appiattimento, mediante l’affermazione del diritto di ciascuno a dire la propria, sempre e comunque, senza pudore e preparazione. Si comincia dalle piccole cose, creando il clima e lo stato d’animo adatti a che nessuno più s‘indigni di fronte ad atti o parole assurde – o per meglio dire: l’indignazione ci sarà, ma individuale, momentanea, non organizzata, non documentata, non argomentata, soprattutto ridotta ad opinione/sfogo in mezzo ad altre opinioni/sfoghi, tutte sorde al dialogo e cieche alle possibilità e all’idea stessa di verità (per quanto momentanea, dialogica, procedurale questa possa essere).
abcdeeffe
21 febbraio 2010
Uno spunto su due parole: pudore e preparazione. Ossia quello che più sta venendo a mancare oggi. Ciascun termine, tuttavia, necessita di un armamentario analitico differente: se per capire che fine abbia fatto il “comune senso del pudore” si deve guardare sì all’evoluzione socio-culturale ma anche e soprattutto ai dispositivi psicologici che hanno consentito quella che in un altro post ho definito “l’affermazione – definitiva e radicale – della prevalenza di tutto ciò che è desiderio e pulsione”, per capire invece come si evolve l’idea stessa di “cultura” (o meglio di “education” come dicono gli Inglesi) bisogna tener presente che è in corso una vera e propria mutazione genetico-epistemologica. In poche parole: è cambiato il modo d’imparare. E’ un cane che si morde la coda, un circolo vizioso: gli alti operatori economici, come dici tu, agiscono in primo luogo sulle strutture dell’apprendimento e sul registro delle pulsioni, contemporanemante. Una strategia duplice, un attacco su due fronti, che mira a schiacciare ogni resistenza di pensiero critico.
PS Più che sulla censura, bisognerebbe lavorare sull’autocensura. Staccandola, una volta per tutte, dal senso di colpa. Un’autocensura laica, critica, preventiva, che non causa frutrazioni ma al contrario la soddisfazione del miglioramento.
Giacomo
21 febbraio 2010
Del tutto d’accordo.
(“Pudore e preparazione” potrebbe essere il nome di un movimento di rinnovamento etico della società… Conosci un clone laico di don Giussani?)