D.esde las montañas de Pandora

Posted on 13 gennaio 2010

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Stando alle interviste che si leggono in giro sulla rete, James Cameron ha iniziato a lavorare al progetto di Avatar circa 16 anni fa. Più o meno quando nello stato messicano del Chiapas, un gruppo di indios si solleva in armi sotto le insegne dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, per combattere contro secoli di oppressione e sfruttamento, per la libertà, la giustizia e la democrazia. Singolare coincidenza che oggi il pubblico di tutto il mondo possa ammirare sugli schermi cinematografici – e per di più in tre dimensioni – le vicende di una guerra tra degli spietati sfruttatori delle risorse naturale di un pianeta che non gli appartiene e un gruppo di indigeni armati di archi e frecce e disposti a morire per salvaguardare il proprio territorio. Se le coincidenze si fermassero qui, non avrei molte ragioni di continuare a scrivere. Ma non è così. Avatar è un film visivamente impressionante, curato nei più infinitesimali dettagli, costruito da manuale, con tutti gli ingredienti per diventare immediatamente un classico.

Jake Sully è un ex-marine che ha perso l’uso delle gambe e che si trova a sostituire il gemello morto per una disgrazia in un progetto che potremmo definire bio-culturale: trasferire il proprio sé (cervello e coscienza, per farla breve) nel corpo, artificialmente ricreato, di un indigeno Na’vi del pianeta Pandora – un corpo detto appunto avatar. Lo scopo è di avvicinare la popolazione locale, gli Omaticaya, apprenderne gli usi e costumi, e convincerli rapidamente a sloggiare dal proprio territorio per consentire a ruspe e scavatrici di estrarre un minerale che “si vende a 20 milioni al chilo”. Nella magniloquenza visiva e tattile delle foreste di Pandora, Jake Sully non solo scopre di nuovo l’uso delle gambe, ma anche un mondo che non si aspettava, che presto lo affascina e lo fa suo. James Cameron sembra pescare a piene mani dai classici dell’etnografia per delineare non solo il mondo Na’vi (linguaggio, cerimonie, rituali etc.) ma anche il percorso attraverso il quale il protagonista si trasforma lentamente in uno di loro, con tanto di rituale d’iniziazione e cerimonia di benvenuto. Finale inevitabile: la guerra tra gli umani che vogliono il minerale, armati massicciamente con tecnologie avanzatissime, e gli indigeni, guidati guarda caso da un Jake Sully novello condottiero.

I temi ci sono tutti: ecologia e sostenibilità, guerra e imperialismo, migrazioni e scontro di culture, persino un topos classico del cinema di ogni tempo: il rapporto tra la dimensione reale (il Jake Sully paralitico e al servizio degli invasori) e la dimensione onirica (il Jake Sully che si addormenta in una macchina di laboratorio – evidente citazione da Alien – e si risveglia nel corpo agile e scattante del suo avatar, diventando poi il leader dei Na’vi). C’è l’avventura nel senso più classico della nozione (esplorazione e scoperta); c’è il riferimento a quest’era web-dominated nella natura di Pandora, interconnessa come lo è internet; e c’è persino la storia d’amore tra Jake Sully e Neytiri, principessa Omaticaya (strizzatina d’occhio che Cameron fa ai fans del suo Titanic). C’è questo e molto altro nel film: ogni personaggio rappresenta un tassello raffinatamente lavorato che unito agli altri fornisce un quadro articolato e preciso, con più piani di visione e interpretazione.

Oltre a Jake Sully, che rinasce nel suo avatar, la storia si regge su Neytiri, principessa guerriera e mentore del “jakesully” in versione avatar, a cui insegna a vivere in armonia con la foresta e i suoi abitanti e di cui progressivamente s’innamora; Grace Augustine, scienziata agnostica e forte fumatrice, che rappresenta, nel bene e nel male, con tutte le sue contraddizioni ed evoluzioni, il Sapere dei forti che si avvicina alle culture diverse e ne rimane finalmente affascinato; il colonnello Quaritch, la forza bruta militare, più cattivo dei cattivi, che cita le effettive parole di George W. Bush sulla guerra al terrore con una leggerezza quasi spiazzante; Selfridge, il manager problem solver dai metodi spicci, la parola tagliente e l’occhio sempre ai conti, viscido volto di Giovanni Rabisi.

I dialoghi sono minimi, ma penetranti: mirano a costruire allegorie e fanno ampio uso di metafore – e questo si spiega anche con il fatto che la lingua Na’vi (creata appositamente per l’occasione), come molte lingue fortamente radicate su un territorio e non soggette a infiltrazioni e rielaborazioni semantiche, non ne può prescindere (pensiamo, in paragone, ai dialetti italiani). Avatar, anche in questo senso, mi sembra un eccellente esempio di mitopoiesi.

Tuttavia, il colmo di Avatar, a mio giudizio, è che pur essendo un film innovatore dal punto di vista visuale e tecnologico – e cos’altro è il cinema se non l’arte della visione? – non ha nulla di nuovo. E’ una ricetta cinematografica perfettamente cucinata, i cui ingredienti si sono già assaggiati in film come Balla con i lupi, Apocalypto, la serie degli Alien, e nella stessa produzione di Cameron. Il finale – credo di non rovinare nulla nel dirlo – è assolutamente consolatorio. E persino la tridimensionalità della visione non è una novità nella storia del cinema.

Ma a questi occhi che hanno camminato per le montagne del Chiapas, che hanno letto e studiato la storia e il sapere degli indigeni della Selva Lacandona, che hanno visto il proprio sè trasformarsi e piantare radici in una terra lontana, Avatar ha suggerito visioni peculiari.

Jake Sully è un uomo a cavallo di due culture, di due universi simili ma incomunicanti, che decide finalmente di appartenere a un popolo unito dalla solidarietà reciproca e dall’attaccamento a un territorio comune, a una geografia che è a un tempo una cosmologia. Egli porta a termine, aiutato da Neytiri, un vero e proprio percorso iniziatico, alla fine del quale, ripescando un antico mito Omaticaya, si pone alla testa di un esercito agguerrito ma armato di archi e frecce (lui solo possedendo un mitra e delle bombe che poi si riveleranno risolutive…). Ricorda qualcuno? Certo: il Subcomandante Marcos. Si tratta di un’allegoria, è ovvio, non vi è nel film nessun riferimento esplicito. Eppure le vicende di Avatar assomigliano così tanto – finale a parte, ahimè… – alle vicende degli Tzotziles, degli Tzeltales, dei Mames, dei Choles e dei Tojolabales del Chiapas che hanno deciso di ribellarsi alla propria condizione di comparse della storia.

Quello, però, che è comune al film e alla storia dello zapatismo di fine millennio, e che si racchiude perfettamente nel titolo stesso, è l’idea che, ben oltre le vulgate essenzialiste/etniciste/terzomondiste, l’identità sia, possa essere, una scelta consapevole. Che quel che è dato si può abbandonare – con la fatica e il dolore di ogni strappo – e che si possa abbracciare un nuovo sè. Che per tutti è aperta la possibilità di costruirsi il proprio avatar, non il proprio alter ego ma un novus ego, frutto di una deliberazione. Se questo è vero, allora Avatar è un film zapatista, perchè come hanno fatto per primi e continuano a fare gli zapatisti di oggi, ci mostra come sia possibile spogliarsi delle catene dell’identità* e assumersi il carico di responsabilità di sè e della società in cui si vive. Indossare un passamontagna o entrare in un corpo geneticamente modificato sono allora metafore dei diversi modi possibili in cui questo avviene.

Avatar ci fa vedere come tutti noi siamo in potenza indigeni Na’vi, e cioè che nessuno è indigeno. Che sono esattamente le differenze a fondare l’uguaglianza – e in ciò non v’è paradosso alcuno. Il film raccoglie in un certo senso l’eredità teorica dello zapatismo, superando allo stesso tempo ogni retorica postmodernista e ogni pensiero debole, offrendo invece una visione possibile. Così facendo il cinema di Cameron ottempera perfettamente alla funzione di far vedere: nel solco della science-fiction, della mitopoiesi, l’arte non solo supera la realtà, ma vi dà forma. Dalle montagne (fluttuanti) di Pandora, rinasce la possibilità d’immaginare un mondo diverso.

* Non appaia paradossale quest’affermazione a chi sa che tutta la vicenda zapatista si fonda per l’appunto su rivendicazioni indigene (diritti, cultura, autonomia etc.): essa nasce da uno studio approfondito che ho condotto per diversi anni e che mi ha fatto raggiungere tale conclusione; chi fosse interessato a saperne di più, mi scriva.