D.odici

Posted on 11 dicembre 2009

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Il dodici (12) è un numero che mi segue sin dalla nascita. Sono venuto al mondo infatti il 12 febbraio a mezzogiorno e dodici minuti di un anno le cui quattro cifre sommate danno un multiplo di dodici. Ma non prendetemi per pazzo, non credo nè alla numerologia d’accatto nè alle più banali superstizioni. Tanto meno sono tra quelli che quando si fissano su un numero poi se lo ritrovano ovunque.

I fatti parlano da soli. Alcuni degli eventi più importanti della mia vita hanno avuta una relazione con il numero 12. Per esempio, mi sono laureato il 12/12/2000. Mi sono trasferito all’estero, in due occasioni diverse e in due paesi diversi, il 12 settembre di due anni diversi, scegliendo la data solo ed esclusivamente in relazione a questioni logistiche. Vivo a Parigi in una casa che non ho scelto io nel dodicesimo arrondissement. Il mio scrittore preferito non si svegliava mai prima di mezzogiorno.

Non ho mai giocato il numero 12 al lotto o alla roulette, ma non mi meraviglierei di vincere se lo facessi. Qualcuno dirà che è il mio numero portafortuna, io dico semplicemente che è il mio numero. Del resto, anche i numeri, come le lettere, possono essere scomposti in infinite significazioni.

Nel corso della storia tanti eventi importanti hanno avuto luogo in data 12 dicembre. Per esempio, si dice che nel 1531 la Virgen de Guadalupe apparve all’indio Juan Diego, originando così il più solido culto mariano dell’America Latina. Oppure, nel 1901 Guglielmo Marconi ricevette il primo segnale radio transoceanico, dando inizio all’era delle telecomunicazioni. Ancora, nel 1913 la Gioconda venne recuperata a Firenze due anni dopo il suo furto da parte di Vincenzo Peruggia.

Il 12 dicembre 1969 una bomba esplode nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, a Milano, uccidendo 17 persone e ferendone 88.

Alle diciassette vittime della strage che aprirà la strategia della tensione in Italia se ne deve aggiungere una diciottesima, deceduta circa tre giorni dopo l’attentato terroristico: il ferroviere milanese Giuseppe “Pino” Pinelli, anarchico, precipitato da una finestra del quarto piano della Questura meneghina. La storia è nota, e come tutte le storie importanti, andrebbe raccontata in continuazione; poichè c’è chi lo ha fatto meglio di me, non la ripeterò.

Quello che noto è come Giuseppe Pinelli sia (ahilui) passato alla storia come “l’anarchico Pinelli”, dove l’accento va messo sulla prima parola. Vale a dire che la sua qualifica di anarchico non si limita a indicare la vicinanza a un’idea politica o più precisamente, nell’Italia di quel periodo, la militanza in un gruppo ben identificato. No. L’aggettivo “anarchico” diventa sostantivo. Si è anarchico, non lo si diventa. Si è prima anarchico e poi individuo con un nome e un cognome. Anzi, con un vero e proprio ribaltamento della grammatica, si direbbe che “anarchico è Pinelli”, dove la prima parola è soggetto e l’ultima semplicemente un predicato della copula.

Lo storico del pensiero Antonello Gerbi si definiva un “anarchico costituzionalista”, costruendo in questo modo una felicissima ambiguità: anarchico per costituzione o anarchico fedele alla Costituzione? Quale che fosse il senso originario di quest’espressione, essa coglie un tratto genetico di quegli uomini – “non son che l’un per cento” cantava Leo Ferrè – che sono da altri definiti anarchici. Essi si definiscono, semplicemente, uomini liberi.

Mi piace pensare che quarant’anni fa, quando Pino Pinelli ha guardato al di fuori di quella finestra da cui sarebbe precipitato poco dopo, abbia visto tra le nuvole della notte il corpo sinuoso dell’utopia e il volto soave della libertà. E che la sua agonia sia stata il suo trionfo.

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