C.apire

Posted on 30 novembre 2009

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Le modalità di apprendimento di una lingua straniera possono dire molto sul carattere di una persona. Mi pare che esistano due tipi di discenti: quelli che vogliono capire e quelli che vogliono farsi capire. Cioè quelli più interessati a una comprensione relativamente passiva della lingua straniera e quelli invece desiderosi di esprimersi in tale lingua in tempi brevi a spese della forma.

I comportamenti che queste due categorie manifestano di fronte a un’interazione con chi parla un altro idioma mutano sensibilmente. Immaginiamo, per esempio, un dialogo: nel primo caso, il caso di chi è più concentrato a capire, costui presterà un ascolto attento alle parole dell’altro, ne cercherà la corrispondenza alle regole sintattiche che ha appreso da poco o che sta apprendendo, cercherà di costruire un senso in modo matematico-probabilistico, ossia sommando quegli elementi del discorso riconducibili a un significato noto per ricavare con più o meno buona approssimazione il senso complessivo di quanto ascoltato. Si limiterà, infine, a risposte semplici dal punto di vista sintattico e lessicale, che sono tali per due motivi: per timidezza, spesso, e per paura di convogliare dei significati diversi da quelli intesi. Il paradosso di questa categoria è che per timore di una comunicazione fraintesa, la comunicazione stessa si limita a concetti semplici e immediati, rifuggendo qualsiasi complessità e quindi un dialogo serio e proficuo.

Nel caso della seconda categoria, invece, lo straniero che si trovi coinvolto in un dialogo in una lingua che egli non domina perfettamente, anzi, che parla in modo piuttosto maldestro, cercherà in ogni modo di esprimersi pur di consentire al suo interlocutore nativo una comprensione quanto più dettagliata possibile di ciò che va dicendo. Per questo motivo, egli commetterà innumerevoli errori sintattici e semantici, userà cioè le parole sbagliate nel modo sbagliato, aumentando così la possibilità di malintesi. Egli, meno propenso all’ascolto, scaricherà sull’altro non solo tutta la sua imprecisione e (si spera momentanea) ignoranza, ma anche, in buona misura, la sua insicurezza. Il paradosso di questa categoria è l’opposto dell’altra: l’eccesso di comunicazione verbale, pur aumentando il rischio di incomprensione, consente tuttavia di far filtrare un numero maggiore di nozioni e significati, sebbene in maniera imprecisa.

Nel primo caso abbiamo una preferenza della qualità sulla quantità della comunicazione. Nel secondo caso ci troviamo di fronte a una compensazione della (scarsa) qualità con una maggiore quantità. Si tratta di modelli ideali, ça va sans dire. Naturalmente tra questi due poli sono immaginabili un’infinità di variazioni intermedie. Resta il fatto che le attitudini espresse in un dialogo in una lingua straniera (e soprattutto le preoccupazioni e monte di quelle attitudini) lasciano a mio giudizio trasparire anche un modello latente di atteggiamento nei confronti dell’Altro in sè.

Chi vuole capire piuttosto che farsi capire dimostra tendenzialmente un’apertura maggiore nei confronti dell’Altro: una maggiore capacità di ascolto, un’attenzione più concentrata, una tolleranza, persino, all’invasione che l’Altro fa della sovranità del nostro Io. Chi invece è più preoccupato di farsi capire esprime in questa sua preoccupazione un certo livello di egocentrismo, una logorrea inarrestabile persino di fronte alla mancanza di strumenti linguistici appropriati, una bulimia di contenuti, quasi una cecità nei confronti dell’Altro.

Lo spaesamento che deriva allora dall’apprendimento di una lingua straniera, cioè dalla cartografia di quella lingua, può declinarsi lungo un asse che ai suoi poli vede delineati questi due idealtipi. Di fronte all’horror vacui che consegue a ogni impresa di mappatura di un idioma straniero, chi reagisce con una riduzione della parola e un incremento dell’ascolto, dice di sè la propria apertura. Chi, al contrario, riempie il vuoto con parole erronee e mal connesse, testimonia di sè solo paura e insicurezza.  E la logorrea, è facile immaginarlo, può essere un eccellente alibi della violenza.

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Posted in: Antropologie